La Passione di Cristo” di Mel Gibson
L’autoflagellazione di Mel Gibson
recensione di Osvaldo Contenti
Prologo futuribile…
Quando tra vent’anni su un display da polso uno spot del webcultura mi inviterà a partecipare al convegno interattivo su “La rivoluzione formale del Cristo di Mel Gibson”, mi verrà da sorridere ripensando allo strepito causato dall’uscita nelle sale italiane de La Passione di Cristo, in quel lontano 7 Aprile del 2004. Enrico Ghezzi, nel videodibattito, con sempre meno capelli ma sempre più stralunato, esordirà parlando di: «...sternocleidomastoideo vermiglio e violato del Messia». Allora, pensando che Enrico non cambierà mai, probabilmente spegnerò il minivideo cercando invece di ricordare ciò che The Passion all’epoca aveva effettivamente innovato. E tornando a quelle memorie, rammenterò che il film di Gibson aveva scardinato un tabù, disvelando una colossale rimozione psicologica che per duemila anni non aveva voluto vedere un Cristo insanguinato e crocifisso tra indicibili sofferenze per l’inaudita ferocia dei suoi aguzzini Romani. Perché tutto questo? Probabilmente per lenire un altrettanto colossale senso di colpa che ha sempre attanagliato l’animo dei devoti, artisti e non, i quali, nettando le ferite sul corpo di Gesù, rendendolo splendente, cercarono di elevarlo a simbolo della purezza interiore curandone l’estetica. Una visione romantica, un make-up psicologico, che Gibson ha irrorato di sangue non per gusto orrorifico, ma perché il suo più che un film è un Atto di Dolore, una preghiera per immagini, una rappresentazione di natura devozionale che ripercorre modernissimamente il motivo iconografico del Compianto sul Cristo morto. Nel 2024 ripenserò a tutto questo dandolo per scontato. Magari non ricorderò esattamente se Bin Laden fosse stato trovato esanime tra i suoi stessi escrementi prima o dopo l’uscita del film. Ma ricorderò con certezza che la sua fine e quella del terrorismo di Al Qaeda, in breve tempo, portarono alla costituzione di uno vero e proprio Stato palestinese, che accanto a quello israeliano vedeva finalmente i bambini scambiarsi la kufiya e la kippà in un vicendevole dono di giocatolli. Cosa che nel 2004 era impensabile, perciò il film di Gibson venne tacciato di istigare sentimenti antisemiti, ma solo perché il periodo storico di allora viveva ancora di conflitti armati e ideologici e non era preparato a vagliare serenamente il contenuto dei Vangeli.
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Ma, accidenti alla mia fantasia, eccomi ripiombato nel 2004. Ho promesso ad Hideout un recensione sullo “specifico filmico” de La Passione di Cristo e invece mi ritrovo a fantasticare sul futuro! Forse sarà meglio non scriverle quelle cose lì. O forse sì… perché in fondo quelle cose le penso davvero e Fabio Falzone, che vedo scrutarmi dalla colonna superiore, in questo modo capirà al volo da dove parte il mio punto di vista, liberissimo di pensarla all’opposto.
Comunque, sarà meglio ricominciare da capo. Dallo specifico filmico, intendo dire. Ridò un’occhiata agli appunti ed eccomi pronto…
La critica vera e propria
Mel Gibson pennella le ultime dodici ore della vita di Cristo partendo dalle brume serali dell’orto del Getsemani. Gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, appena visibili nella nebbia, inconsapevoli di ciò che accadrà, dormono placidamente. Ma una musica grave ci avverte che qualcosa di ieratico sta avvenendo. Infatti, Gesù, percorrendo lentamente, come soverchiato da un peso, il Monte degli Ulivi, ora è conscio che l’amaro calice della Passione sarà fonte dal suo destino terreno. Tutto ciò in una sequenza piuttosto fedele rispetto ai Vangeli, ma già impostata sul tema cardine che interessa a Gibson: la Passione di Cristo come scelta consapevole del figlio di Dio fatto uomo, che col suo sacrificio redimerà i peccati del mondo con la sua morte e resurrezione. E non a caso il regista, in un primo tempo, avrebbe voluto intitolare il suo film semplicemente Passion, senza altra aggiunta. Consigliato diversamente, ha però mantenuto saldo il principio originario della pellicola che focalizza sulla Passione (flagellazione, calvario e crocifissione), e non sulla trasposizione lineare dei Vangeli sinottici, il tema costituente del film. Scelta criticabile, forse, che abbandona l’immensa lezione d’amore di Gesù. Ma comunque una scelta. Che va valutata e rispettata in quanto tale, e non per quello che ognuno di noi avrebbe voluto vedere nel film. Del resto, altrimenti, Gibson avrebbe dovuto confrontarsi con dei titani: Pier Paolo Pasolini e il tema della morte ne Il Vangelo secondo Matteo, Roberto Rossellini e il rigore storico de Il Messia e Martin Scorsese con le lucide provocazioni de L’ultima tentazione di Cristo, che sarebbe stato impossibile pensare di eguagliare sul terreno della narrazione relativa ai resoconti evangelici. Anche perché su quel versante tutto era stato già detto. Così, Gibson, intelligentemente, ha scelto di inquadrare solo una parte della vita di Cristo. Quella probabilmente a lui più congeniale in quanto rispecchia la sua personale devozione verso la figura di Gesù, e al contempo quella rivolta all’unica “parte molle” dei capolavori sopracitati che, invariabilmente, non sono intervenuti sulla “ritrattistica” del Cristo, se non affidandosi ad un’iconografia stereotipata. Ed è lì che Gibson ha espresso il suo vero colpo di genio, quadrando il cerchio delle sue duplici aspettative. Perché l’acuto realismo delle sofferenze patite da Gesù si evidenzia in un sangue effettivo ma anche simbolico, emblematico quindi del concorso di colpa che l’autore vorrebbe farci espiare in quanto compartecipi, come umanità, della messa a morte del Messia. Un’umanità che uccide il proprio Dio, sembra dirci Gibson, non ha altra strada che la devota preghiera del perdono per redimersi. Meglio se seguendo passo passo, e quindi condividendo, il cammino di Cristo verso la croce. Una visione penitenziale e autoflagellante che può non essere condivisa ma che comunque va rispettata. In specie quando la stessa trova sublimazione nel neorealismo a tema sacrale che come una rivoluzione scardina per sempre gli istituti formali precedenti, in un film che, in tal senso, non esito a definire epocale e magistrale.
Nota: Solo vedendo il film una seconda volta mi sono accorto che in una scena del Calvario, quando Maria (Maia Morgenstern) sorregge Gesù (Jim Caviezel) caduto sotto il peso della croce, la postura dei due assume, come in un fermo immagine istantaneo, la stessa che possiamo notare ne La Pietà di Michelangelo. Un pennellata d’autore tanto più stimabile perché non enfatizzata. Bravo Gibson!
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